- On 31 Marzo 2019
- In Storia o leggenda
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L’ASSOGGETTAMENTO DEL MALE. IL CARNEVALE IN SARDEGNA
Dodici maschere cupe, tristi, sottomesse, accompagnate da penetranti strepiti di campanacci, marciano ordinate in due file, con passo cadenzato, in un alone di profonda malinconia. Su di loro vigilano solennemente otto figure severe, inclementi, dal sorriso enigmatico, o forse sardonico, registi ombrosi di una danza rituale terribilmente misteriosa e maledettamente seducente. Li chiamano Mamuthones e Issohadores. Hanno una storia ultramillenaria e un fascino che resiste tuttora, testimone di un’altra Sardegna, arcaica e profonda, intransigente e devota, umile e orgogliosa, in una parola: vera.
Maschere ataviche, grottesche, erculee, maschere che sarebbe riduttivo definire carnevalesche, maschere che sono prerogativa di Mamoiada. Il paese è situato nel cuore della Barbagia di Ollolai, non distante dalle più alte vette isolane, quelle del Gennargentu e di un incontaminato Supramonte in grado di regalare sensazioni uniche di libertà. Spunta in una valle rigogliosa, perché ricca di sorgenti, che ha favorito la frequentazione umana sin dai tempi più remoti, come testimoniato dai menhir, dalle necropoli, dai nuraghi rinvenuti nel suo territorio. La zona fu di straordinaria importanza anche durante la dominazione romana: il paese sorge infatti sulla strada che collegava gli antichi insediamenti di Olbia e Cagliari. Quella che fu un’importante stazione romana, nonostante o forse grazie al suo isolamento, ha saputo conservarsi e rinnovarsi nei secoli mantenendo vive le sue peculiarità e le sue tradizioni. Ce lo conferma Giulio Angioni, scrittore vincitore del Premio Mondello nel 2006 con il romanzo ‘Le fiamme di Toledo’, ma prima ancora antropologo specializzato nel mondo contadino e pastorale, nonché docente universitario in Italia e in Francia: “I mamoiadini e i loro vicini tutto intorno sono certo orgogliosi delle loro tradizioni. Certo anche in quanto barbaricini. Ma forse non bisogna esagerare, e i mamoiadini non esagerano, nel sentirsi sardi speciali proprio per i Mamuthones. Sanno ormai da tempo quanto questo loro rito carnevalesco, certo tanto più antico del Carnevale, ha in comune con maschere e con riti comunitari di tutto il Mediterraneo e oltre. Ed è proprio questa loro conoscenza e consapevolezza di essere insieme particolari e uguali ad altri, in Sardegna e in tanti altrove, che li fa più orgogliosi”.
Il fortissimo senso identitario dei mamoiadini e la capacità di cogliere il potente richiamo mediatico che tali costumi sanno esercitare hanno convinto il paese dell’opportunità, se non necessità, di allestire un apposito museo, dedicato alle maschere mediterranee. L’allestimento include profili facciali lignei e pelli animali arricchite da strumenti utili a provocare suoni intensi, frastornanti, anche disorientanti. Maschere quindi legate alle comunità di pastori e contadini, fortemente interessati alle sorti dell’annata agraria e quindi attenti ai cosiddetti ‘segnali’ dalla natura. Accanto alle maschere mamoiadine e a quelle provenienti d’oltremare, compaiono gli altri travestimenti isolani, compresi Boes, Merdules e Filonzana di Ottana, Thurpos di Orotelli. Tutti componenti un’unica famiglia, nella quale spiccano come più noti i Mamuthones, col loro passo danzato, coi loro balzi regolari. Spiega professor Angioni: “Hanno certo un ritmo. Ternario. Una ritmicità quasi panumana. Qui applicata al passo di uomini che vogliono essere e rappresentare qualche cosa che ormai è per molta parte dimenticato. Sebbene si accompagni spesso alla danza e quindi alla musica, e comunque a un uso del corpo formalizzato, le funzioni più evidenti della maschera variano da società a società e nel tempo presso una stessa società. Innumerevoli generalizzazioni sono state fatte sulla loro forma, uso, significato, da Denis Diderot a Karl Marx, da Michel de Montaigne a Lévi‑Strauss, da Friedrich Nietzsche a Roger Caillois, da Montesquieu a Siegmund Freud. Infatti le maschere sono senza dubbio un fenomeno universale, tanto che si potrebbe dire elementarmente umano, e infinite volte è stato ripetuto che la maschera è antica quanto l’uomo stesso. Le maschere sono presenti in attività ludiche, sono portate da guaritori, sciamani, esorcisti, sono impiegate per nascondere l’identità di membri di società segrete, sono usate nell’adorazione di divinità, per manifestare e per acquisire autorità e per molto altro ancora. Oggi a Mamoiada resta il rito senza più lo scopo antico ed il significato di dominio del male e del pericolo reso domito e ubbidiente, preso al laccio e fatto gregge. L’antica aspirazione a rendere inoffensivo il nemico, in Barbagia diventa carnevale”.
È il Carnevale che si innesta nella tradizione di una comunità che sostiene con forza e fierezza la propria identità. E la rinnova di anno in anno. Col rischio, secondo alcuni, di subordinare il rito allo spettacolo. Il commento di Giulio Angioni: “Certo i carnevali barbaricini, ma non solo, ormai sono molto, spesso troppo turistizzati, spettacolarizzati, e a questo scopo riadattati, come sempre accade per motivi vari. Per il turista i Mamuthones fanno carnevale tutto l’anno girando per il mondo. Un tradimento? Sì e no. Il mondo cambia e va per nuove vie, sempre e dappertutto. Certo un po’ più di onestà non guasterebbe nel non rivendicare genuinità ancestrali immodificate proprio quando si fanno le più audaci trasformazioni in senso spettacolare. Ma non mi pare che i mamoiadini pecchino più di altri in questa direzione. Forse in Sardegna, e nel Mediterraneo, sono un buon esempio di serietà storica ed etnografica”. La prima comparsa dell’anno di Mamuthones e Issohadores avviene il 17 gennaio per i festeggiamenti in onore di Sant’Antonio abate, celebrato in tutta l’Isola e in particolare a Mamoiada, del quale è patrono. Il rito propiziatorio dell’accensione dei falò nei vari rioni del paese prevede infatti anche la partecipazione delle caratteristiche maschere paesane. L’antica processione ha l’obiettivo di tenere lontani gli spiriti maligni dalle terre e dai pascoli, con effetti propiziatori per il nuovo anno. Un rito apotropaico che ha origine in ambiente agro-pastorale nel periodo pre-cristiano. Lo stesso nome del paese pare possa derivare dal nome della maschera: Mamujata era il luogo dove c’erano i Mamuthones. Quella legata al culto pagano è la teoria più accreditata, ma ne esistono anche altre, come quella che contrappone le facce nere dei ‘Melaneimones’, rappresentanti i fenici, a quelle bianche dei ‘Lacedemoni’, i micenei prima e gli spagnoli poi. O ancora mori e sardi, con i primi che, nella parte dei Mamuthones, da assoggettatori diventano assoggettati. Giulio Angioni fa risalire il dramma rappresentato ad epoche più antiche: “Carnevale di Mamoiada, austero e cupo. Uomini a viso aperto imbrancano uomini in scure maschere, gravati da grappoli di sonagli sulla schiena, a passo cadenzato, unisono. È la sfilata del prigioniero, del nemico legato e sottomesso, senza volto? Maschere mute e misteriose di ricordi senza tempo, visi sfigurati, visi paurosi, visi impauriti, vesti di pelli crude. Carnevale dell’uomo fatto bestia, soggiogato, punito suo malgrado o forse per sua colpa? Chi è il Mamuthone? È l’uomo schernito perché nemico vinto? Il nemico millenario venuto dal mare, il moro, finalmente vinto, o che si vuole vincere in un rito propiziatorio? O non è un male più antico? Non vittorie sui mori, ma sul male che ci fa animali, un male più antico del moro. L’antica aspirazione a dominare il male, a Mamoiada diventa Carnevale”.
Nella rappresentazione del dramma il male ha bisogno di una personificazione, un rituale che tuttavia va ben oltre la mera esigenza teatrale, come spiega l’antropologo: “Forse l’uomo è uomo da quando si è accorto di avere un corpo e ha incominciato a manipolarlo per farlo apparire, sparire, trasformare secondo le sue intenzioni. Come nell’Eden biblico. Il fenomeno universale del mascheramento non ha prodotto solo oggetti di arte primitiva o popolare, che hanno così spesso attirato l’attenzione dell’antropologo o dello storico di arti visive. Anche in Sardegna. Sebbene si accompagni spesso alla danza e alla musica, le funzioni della maschera variano da società a società e nel tempo presso una stessa società. Innumerevoli generalizzazioni sono state fatte su forma, uso, significato della maschera. Nella maschera soprattutto si può vedere un indizio dell’unità del genere umano. E così, ciò che gli uomini hanno inventato per differenziarsi, per camuffarsi, per mostrarsi altro da quel che sono, identifica e unifica tutte le popolazioni umane in ogni tempo e luogo, perché ovunque c’è il mascheramento, là c’è l’uomo e viceversa, quasi la coscienza di essere al mondo produca l’impulso a modificare il proprio modo di mostrarsi e di apparire, per gli scopi più vari”.
Il processo della vestizione segna il passaggio da uomini a maschere, rito di trasformazione che regala momenti di composta fibrillazione. L’atmosfera è tesa ma allegra, intensa ma gioconda, addirittura sacra ma profana, per l’assenza di un sacerdote che dirige, o meglio celebra, la ‘metamorfosi’. I Mamuthones indossano innanzitutto sas peddes, ovvero le pelli di pecora nera, e poi sa carriga, l’insieme di campanacci, tenuti insieme da cinghie in pelle serrate tra petto e spalle. Il carico arriva a pesare fino a 30 kg, rendendo difficile la respirazione e provocando vistose ecchimosi. Ai piedi calzano scarponi in cuoio, sos usinzos, mentre in testa portano su bonette, il copricapo, coperto da su muncadore, il grande fazzoletto generalmente indossato dalle donne. Infine sul viso si posa sa bisera, la maschera nera di legno, d’ontano o d’olmo, in passato anche di pero e di sughero, con carattere antropomorfo, che dà alla figura quell’aspetto angosciato e angosciante. Realizzata a mano, scavata all’interno e ben rifinita, è appositamente adattata al viso di chi la deve portare. Gli Issohadores hanno invece colori vivaci proprio per sottolineare la contrapposizione. Sa amisa (la camicia) e su pantalone (i calzoni) sono entrambi bianchi, mentre su curittu, è la giacca, in panno rosso, e s’issallu è lo scialletto, legato in vita, ricamato a mano. Il capo è coperto da sa berritta, tradizionale berretto nero, tenuto fermo da un altro fazzoletto colorato, e sul viso porta la maschera lignea bianca, sa visera ‘e santu (anche se talvolta può anche apparire a viso scoperto). Elemento caratterizzante è infine sa soha, che dà il nome alla maschera ed è la fune in cuoio o giunco appositamente immersa nell’acqua per ottenere la giusta consistenza.
Più complessa l’origine della parola Mamuthone. In gergo il termine viene ora usato come sinonimo di ‘pazzo’ o ‘buono a nulla’ e si ipotizza derivi da ‘Maimatto’ o ‘Mainoles’, uno dei nomi di Dioniso, a conferma della credenza che vuole il Dio della natura incarnarsi nelle vittime. La traduzione letterale sarebbe ‘il tempestoso’, o meglio ancora ‘colui che fa infuriare la tempesta’, epiteto dato appunto a Dioniso, che ogni anno moriva e poi rinasceva in Primavera. Un’altra teoria sottolinea come il nome rappresenti la somma delle radici ‘mam’ e ‘muth’, più il suffisso ‘ones’. La prima parola significa ‘acqua’, la seconda ‘chiamare’, mentre la terza si può tradurre in ‘uomini’; il significato ultimo sarebbe quindi ‘uomini invocanti la pioggia’. Un’ultima ipotesi affianca il termine Mamuthone a quello di Mommoti, utilizzato in Sardegna come rafforzativo del Motu (la morte) del Vicino Oriente.
E in effetti potrebbe proprio essere quell’aspetto lugubre, malinconico, sottomesso al punto da poterlo definire funereo, che affascina, che spaventa e attrae, che incute inquietudine nonostante la vivacità di uno spettacolo che è una sorta di processione danzata. Il ritmo è prefissato, sempre identico ma ugualmente magnetico e quasi angosciante. I dodici Mamuthones procedono in due file parallele, guidati nell’incedere ordinato e sofferente da otto Issohadores, disposti avanti, dietro e sui fianchi dei compagni di corteo, per poterli agevolmente sorvegliare. Apparentemente in contrasto, si tratta in realtà di due figure complementari, addirittura inscindibili, perché è così che sono considerate dalla comunità locale. I passi dei Mamuthones sono pesanti e regolari, creando improvvisi frastuoni con secchi colpi di spalla destra coincidenti all’avanzamento del piede sinistro, seguiti da colpi di spalla sinistra con lo spostamento del piede destro. Il passo è caratterizzato da uno scatto in avanti del ginocchio ed è ulteriormente cadenzato dal suono de sa carriga, il segnale degli Issohadores che esorta i Mamuthones a compiere tre salti in serie. Il passo degli Issohadores è molto più agile ma comunque sincronizzato alle altre figure. La differenza sta nell’interazione con gli spettatori: lanciando ‘sa soha’ (la fune) essi catturano donne e amici presenti nel pubblico, chiedendo in cambio baci o vino e contrapponendosi anche in questo al mutismo dei Mamuthones, privati del diritto d’interazione. Come racconta magistralmente ancora Giulio Angioni: “Funesto e senza riso è il carnevale di Barbagia. Voce di ferro, vesti belluine, maschera dura e nera del dolore. Uomini che conducono altri uomini, però diversi, come bestie, presi perché nemici da tenere: sono l’altro, il diverso, il pericoloso da soggiogare e utilizzare, da rendere domestico o distruggere, da allontanare dal gruppo dei noi altri? Ciò che nella notte dell’imbestiato e della scorreria accade senza la maestria umana capace di controllo, nel Carnevale avviene nel domestico, nel conosciuto, e con le regole ben note: il pericoloso è tenuto a bada dall’uomo abile e valente, dentro il quadrilatero della regola antica che dispone tutto in ordine e nella dura gerarchia di chi tiene ed è tenuto, davanti, di dietro, ai fianchi. Ma ad essere tenuto stavolta è giusto il male, l’inumano, il nemico: il Mamuthone è ridotto all’obbedienza, in processione rituale controllata dagli Issohadores (i custodi muniti di lazo), gli uomini veri e normali, a viso scoperto e a piede libero, abili nel prendere e tenere, affinché il nemico preso non nuocia più se lo si rende parte d’un nostro rito e d’un nostro gioco. Il rito qui riesce appena a diventare anche gioco: qualche astante è preso al laccio, giocosamente, ma non troppo”.
Già protagoniste in un passato remoto ma apprezzate ancor’oggi, le maschere rivestono insomma un ruolo rilevante non solo durante il Carnevale. Potremmo ordunque dire che la società apprezza, quasi inconsciamente, quel fenomeno di finzione e dissimulazione che è radicato nella vita quotidiana di ogni comunità? Ecco il commento di Angioni: “Ripercorrendo quanto dalla preistoria è percorribile in fatto di maschere, sembra quasi una regola di evoluzione unilineare che l’uomo mascherato incominci come dio o sacerdote e finisca come clown. Meno che a Mamoiada e nei dintorni. Ma, anche qui, le interpretazioni abbondano psico-socio-antropo-storico-sociologiche. Non c’è da farne scandalo: a Carnevale ogni interpretazione vale. Nella maschera Roger Caillois vede una prova, per lo meno un indizio dell’unità del genere umano e della fondamentale uniformità dell’uomo. E così, paradossalmente, appunto perché non pare che ci sia niente di più paradossale della maschera, ciò che gli uomini hanno inventato per differenziarsi, per camuffarsi, per alienarsi, per mostrarsi ed essere altro da quel che sono, manipolando se stessi anche per scopi estetici, svolge una funzione di identificazione e di unificazione di tutte le diversità umane sulla terra, tanto che si potrebbe dire che ovunque c’è il mascheramento, là c’è l’uomo, come se la coscienza di essere al mondo producesse necessariamente l’impulso a modificare il proprio modo fisico di esserci, e quindi di mostrarsi e di apparire, modificando la propria apparenza, anzi la propria ‘natura’ e la propria identità più o meno profondamente: e ciò per gli scopi occasionali più vari, da quelli pratico‑utilitari di una maschera teatrale greco‑romana usata però in un contesto altamente estetico a quelli più banalmente estetici della veletta o del trucco femminile, da quelli socio‑politici come presso la società veneziana di ancien régime (di cui ci restano residui forse prevalentemente ludici) a quelli religiosi dell’isola di Bali”.